Come si faceva il New York Times, nel 1942

Un’affascinante galleria fotografica racconta come veniva messo assieme il New York Times nel 1942:

In September 1942, Office of War Information photographer Marjory Collins paid a visit to the offices of the New York Times, located at the iconic One Times Square and an annex on 43rd Street.

The Thursday, Sept. 10, 1942 issue was dominated by news of fighting in Europe and the Pacific, as well as rationing and cutbacks on the home front (along with recaps of a Yankees victory over the Browns and horse races at the Aqueduct Racetrack).

Jimmy Wales, co-fondatore di Wikipedia, ha lanciato Wikitribune, un progetto contro le notizie false che vuole mettere fianco a fianco giornalisti e lettori — i primi si occuperanno di scrivere gli articoli, i secondi di verificare i fatti e i dati in maniera rigorosa e con un processo trasparente. Il progetto è, per il momento, in fase di crowdfunding.

Sarà focalizzato sul diventare meno uno stream perpetuo di notizie, più un repository esaustivo di quello che si sa su un certo tema attuale. Senza l’ansia e la fretta che caratterizza la maggior parte dei siti d’informazione.

Quante stronzate leggete al giorno? Siamo sommersi da notizie false, dati discutibili presi fuori contesto, studi ‘scientifici’ condotti su un campione di tre unicorni ed enfatizzati da comunicati stampa, tweet che discutono una notizia condivisa da un amico su Facebook, che l’ha letta su un blog, che l’ha ripresa da un giornale online, che l’ha ripresa da un articolo d’opinione — che non si capisce più da dove venga ma alla terza iterazione è diventata altro.

Riconoscere una stronzata può essere arduo. Non sempre tutte le stronzate sono palesi come gli articoli del blog del M5S. A volte si celano dietro grafici fuorvianti. Altre riguardano cose che non conosciamo bene e sulle quali, quindi, non possiamo affidarci troppo al nostro giudizio. Nel frattempo, invece di dare una mano, l’ecosistema di distribuzione delle notizie agevola la diffusione delle stronzate. Le notizie false hanno vita lunga, o come postula il Bullshit Asymmetry Principle: “the amount of energy needed to refute bullshit is an order of magnitude bigger than to produce it.” In certi casi, i giornali nemmeno collaborano a migliorare la situazione.

Sopravvivere a questo bullshit overload richiede strumenti critici, di valutazione. Mark Galeotti, sul New York Times, suggerisce che la strada per risolvere il problema sia l’educazione del pubblico:

Instead of trying to combat each leak directly, the United States government should teach the public to tell when they are being manipulated. Via schools and nongovernmental organizations and public service campaigns, Americans should be taught the basic skills necessary to be savvy media consumers, from how to fact-check news articles to how pictures can lie.

Calling Bullshit è un corso della University of Washington (di Seattle) che parte da queste premesse: che gli strumenti critici e d’analisi per discernere una stronzata da un’altra non siano così ovvi e diffusi, e che le stronzate nuove, che leggiamo oggi, siano più insidiose di quelle di un tempo — meno ovvie. Che la via per salvarsi non sia affidarsi ad algoritmi che decidano per noi cosa sia vero e cosa no (nonostante si possa fare di più — in certi casi il problema delle fake news è simile a quello dello spam), ma sviluppare un senso critico che ci aiuti autonomamente ad analizzare una notizia, una visualizzazione, una statistica.

Il corso è appena iniziato, è gratuito, e si può seguire online. La prima lezione introduttiva è già disponibile. Lo consiglio.

Da un paio d’anni Google ha iniziato a dare risposte: a selezionare, fra le fonti e i risultati di una ricerca, una singola risposta da evidenziare in un riquadro in cima alla lista dei risultati. Google promuove questi risultati dandogli un maggiore peso visivo e includendo il loro contenuto direttamente nella pagina dei risultati — evitando così all’utente di dover visitare un altro sito per leggerli. Li chiama featured snippets:

Quando un utente pone una domanda, la risposta restituita potrebbe essere mostrata in un riquadro speciale di snippet in primo piano nella parte superiore della pagina dei risultati di ricerca. Questo riquadro di snippet in primo piano include un riepilogo della risposta estratto da una pagina web, insieme a un link alla pagina, il relativo titolo e l’URL.

L’obiettivo è quello di riuscire a rispondere direttamente alle domande dell’utente, invece di essere uno strumento di ricerca per trovare e valutare delle possibili risposte. Stando ai dati raccolti da Google agli utenti queste risposte senza sforzo, immediate, piacciono — perché possono trovare quello che cercano senza dover visitare un altro sito o un’altra app. Funzionano molto dai dispositivi mobili — perché siamo più di fretta — ma soprattutto sono un vantaggio competitivo per quanto riguarda gli assistenti vocali: una lista di risultati non funziona su smartwatch e assistenti come Google Home e né Siri né Echo sono al momento in grado di fornire risposte dirette estrapolate da pagine web.

Il problema è che, come sottolinea un post di The Outline, queste risposte a volte sono assurde, sbagliate, aiutano a diffondere teorie cospirazioniste; sono insomma inaffidabili. Google risponde Obama alla domanda ‘chi è il re degli Stati Uniti?’, pensa che lo stesso stia pianificando un colpo di stato, e spiega che tutte le donne sono prostitute se gli si chiede ‘perché le donne sono cattive?’. Un algoritmo, basato su popolarità di un risultato, pagerank e altri oscuri criteri, promuove un risultato a risposta in automatico. Google ha la capacità di intervenire manualmente per modificare le risposte di certe ricerche, e spesso lo fa, ma è probabile che passi del tempo prima che si renda conto sia necessario intervenire — e in quel tempo molte persone leggano la risposta fasulla:

In theory, featured snippets will always temporarily turn up some bad answers, but the net effect would be better answers. “It’ll never be fully baked, because Google can’t tell if something is truly a fact or not,” said Danny Sullivan of Search Engine Land. “It depends on what people post on the web. And it can use all its machine learning and algorithms to make the best guess, but sometimes a guess is wrong. And when a guess is wrong, it can be spectacularly terrible.”

Tutto ciò è un problema perché, stando a un recente sondaggio, il 63% delle persone si fida di Google. Queste risposte sono decontestualizzate: l’utente non visita il sito originario, non nota il layout, il contenuto o gli autori (tutti indizi che aiutano a valutare la veridicità di una fonte), ma le legge attraverso l’interfaccia pulita di Google, e potrebbe così essere portato a pensare che queste risposte vengano direttamente da Google (il problema è peggiore con gli assistenti vocali).

Il profilo del New York Times su Snopes – uno di quei siti di fact-checking che Facebook usa per verificare l’autenticità di quelle storie sospette di essere false:

Their first group of posts, back in 1995, tackled questions about Disneyland, such as whether there really was a secret restaurant at the park. (There was.) It was a time when the nascent web was seen as a force that would deliver enlightenment and truth to all.

Starting about two years ago, Snopes made an effort to professionalize itself. It added a dozen staff members just in time to become the go-to debunking site for an election full of venom. The number of unique users jumped 42 percent over 2015, peaking at nearly 2.5 million the day after the election.

Uno dei difetti dei libri digitali è che rendono difficile saltare da una pagina all’altra: mentre è piuttosto semplice, per via anche della fisicità stessa del libro, spostarsi all’interno di un libro di carta, su ebook è sempre stato abbastanza poco immediato tenere sott’occhio, contemporaneamente, sezioni diverse dello stesso volume.

Il problema ovviamente non è intrinseco agli ebook, ma dovuto piuttosto a una cattiva interfaccia e poca sperimentazione. A dimostrazione che l’usabilità degli ebook può (deve!) essere migliorata, con un aggiornamento a Kindle (sia e-reader che app per smartphone) Amazon ha introdotto Page Flip, una funzionalità che sembra risolvere il problema:

Want to reference a chart or map on another page while you’re reading? Page Flip “pins” your current page to the side of the screen when you swipe away from it to explore other parts of the book. Tap your pinned page to instantly jump back to it.

Si discute molto in questi giorni della sezione trending topics di Facebook, che a differenza del news feed — nel quale la priorità di una notizia rispetto a un’altra viene determinata da un algoritmo — ha delle persone dietro che scelgono a quali notizie dare rilevanza. Pare, stando alle dichiarazioni di uno dei giornalisti che lavora a Facebook, che il social network abbia optato più volte per censurare una notizia a supporto del partito conservatore in favore del partito democratico.

In realtà, trending topics è una sezione piccola di Facebook che vive nella sidebar del sito. Facebook può sì influenzare i suoi utenti scegliendo a quali notizie dare risalto, ma che sicuramente ha più impatto sulle loro idee e scelte politiche è il news feed — e il news feed ahimè ha un problema ben più grosso: ci mostra solo quello che ci dà ragione, contribuendo a una polarizzazione generale delle nostre opinioni. È editoriale ma meno esplicitamente: non ha un gruppo di persone dietro che ne curano il contenuto — come trending topics —, ma ha un algoritmo basato comunque su un principio: suggerirci cose che ci piacciono.

Come scrive Ben Thompson, è il news feed che rischia di fare un danno maggiore alla società:

This, then, is the deep irony of this controversy: Facebook is receiving a huge amount of criticism for allegedly biasing the news via the empowerment of a team of human curators to make editorial decisions, as opposed to relying on what was previously thought to be an algorithm; it is an algorithm, though — the algorithm that powers the News Feed, with the goal of driving engagement — that is arguably doing more damage to our politics than the most biased human editor ever could. The fact of the matter is that, on the part of Facebook people actually see — the News Feed, not Trending News — conservatives see conservative stories, and liberals see liberal ones; the middle of the road is as hard to find as a viable business model for journalism (these things are not disconnected).

La verità è che il problema risiede nella premessa di Facebook di essere neutrale: né l’algoritmo che determina cosa mostrarci nel news feed, né la sezione curata manualmente da un gruppo di giornalisti, lo sono. Entrambi sono editoriali — ed è il news feed, l’idea che solo quello che ci piace ed è in sintonia con le nostre opinioni debba interessarci — che dovrebbe preoccuparci maggiormente.

Joshua Topolsky:

Your problem is that you make shit. A lot of shit. Cheap shit. And no one cares about you or your cheap shit. And an increasingly aware, connected, and mutable audience is onto your cheap shit. They don’t want your cheap shit. They want the good shit. And they will go to find it somewhere. Hell, they’ll even pay for it.

The truth is that the best and most important things the media (let’s say specifically the news media) has ever made were not made to reach the most people — they were made to reach the right people. Because human beings exist, and we are not content consumption machines. What will save the media industry — or at least the part worth saving — is when we start making Real Things for people again, instead of programming for algorithms or New Things.

Columbia Journalism Review:

Algorithmic accountability builds on the existing body of law and policy aimed at combatting discrimination in housing, employment, admissions, and the like, and applies the notion of disparate impact, which looks at the impact of a policy on protected classes rather than its intention. What that means for algorithms is that it doesn’t have to be intentionally racist to have racist consequences.

Jessica Valenti:

I’ve been writing online long enough to not attach my value as a person or writer to strangers’ opinions, but it would be a lie to say that the cumulative impact of being derided daily isn’t damaging. It is. It’s changed who I am on a fundamental level. And though I’d still like to think of myself as an optimistic person, being called a “cunt” or “whore” every day for a decade leaves its mark.

Il Guardian ha analizzato 1,4 milioni di commenti che sono stati bloccati dai moderatori del sito dal 1999 a oggi. 8 su 10 dei giornalisti che hanno ricevuto la maggior parte di questi commenti, abusivi e minacciosi, indirizzati a livello personale invece che sul contenuto o sulla tematica di un articolo, sono donne.

Altri studi confermano che internet è un luogo ostile, per le donne:

In 2006, researchers from the University of Maryland set up a bunch of fake online accounts and then dispatched them into chat rooms. Accounts with feminine usernames incurred an average of 100 sexually explicit or threatening messages a day. Masculine names received 3.7. […] The Internet is a global network, but when you pick up the phone to report an online threat, whether you are in London or Palm Springs, you end up face-to-face with a cop who patrols a comparatively puny jurisdiction.

(via Mantellini)

Quartz ha lanciato la sua prima app per iPhone, ed è in sostanza una chat, una conversazione guidata con un bot sulle ultime notizie del mondo. È diversa da qualsiasi altro esperimento fatto in questo ambito, e mi pare abbia senso. Ha senso se si pensa alla posizione centrale che le notifiche occupano oggi, per ricevere informazioni — oltretutto, una UI perlopiù testuale funziona in ugual modo su iPhone, su Apple Watch, ed è potenzialmente traducibile anche per Siri.

Nieman Lab:

“We had that hunch that it could be an engaging interface,” said Zach Seward, Quartz’s executive editor and VP of product, and a former Nieman Lab staffer. “One thing that’s nice about it is the simplicity. The content type is always messages, and that’s always true whether you’re getting the message inside the app or as a notification.”

Tutto ciò è possibile grazie alla API di Quartz. Nel caso ve lo fosse perso, Quartz si autodefinisce una API: non mettono l’articolo tradizionale al centro di tutto.

NYT Labs:

Information should accumulate upon itself; documents should have ways of reacting to new reporting or information; and we should consider the consumption behavior of our users as one that takes place at all cadences, not simply as a daily update. […]

The biggest underlying shift in conceiving of the future of news as something more than than a stream of articles is in the implied distinction between ephemeral content and evergreen content. There has always been a mixture of the two types in news reporting: An article will contain a narrative about the event that is currently occurring but also will contain more evergreen information such as background context, key players, etc. But the reliance on the form of the article as the atomic unit of news means that all of that information has essentially been treated as ephemeral. A news organization publishes hundreds of articles a day, then starts all over the next day, recreating any redundant content each time. This approach is deeply shaped by the constraints of print media and seems unnecessary and strange when looked at from a natively digital perspective. Can you imagine if, every time something new happened in Syria, Wikipedia published a new Syria page, and in order to understand the bigger picture, you had to manually sift through hundreds of pages with overlapping information? The idea seems absurd in that context and yet, it is essentially what news publishers do every day.

I giornali investono piuttosto poco sui loro archivi digitali; archivi che — spesso — giaciono abbandonati a sé stessi. Le notizie del giorno prima vengono subito dimenticate, nonostante contengano pezzetti di informazione che potrebbero tornare utili per comprendere un evento futuro. Sulla carta, un articolo è un qualcosa che viene pubblicato una volta, e mai più modificato: non evolve nel tempo. Ma sul web potrebbe essere molto di più. La conoscenza e le notizie potrebbero accumularsi, invece che venire riscritte ogni giorno dall’inizio.

The Future of News is Not An Article è un post apparso in questi giorni sul blog della divisione R&D del New York Times, riguardo al lavoro che il New York Times sta facendo per identificare, negli articoli che i suoi giornalisti scrivono, questi pezzetti di informazione riutilizzabile — che loro chiamano particles. L’idea (e anche l’esecuzione) ricorda molto le intenzioni del web semantico: i particles potrebbero venire sfruttati per ritrovare l’informazione, linkandola meglio fra sé, ripescando materiale passato e vanificando, ad esempio, la necessità dell’explanatory journalism. Oltre a evitare di riscrivere continuamente la medesima notizia e premessa, faciliterebbero anche l’adattamento del contenuto alle diverse destinazioni e piattaforme.

Perché non è immorale bloccare la pubblicità sul web

A Settembre uscirà iOS 9, che introdurrà i “content blockers”: gli sviluppatori potranno scrivere estensioni per Safari per bloccare un determinato contenuto. In altre parole, all’improvviso a Settembre sarà possibile, su iPhone e iPad, bloccare la pubblicità su Safari, e gli effetti di strumenti come AdBlock si moltiplicheranno. Agli utenti sarà sufficiente installare un’estensione per liberarsi in poco tempo di tutti i fastidi del web: pubblicità invasiva e sovrapposta al contenuto, video con autoplay e porcate varie avranno un brutto tempo. All’improvviso milioni di utenti realizzeranno quanto un web senza pubblicità sia più veloce e comporti più privacy (i content blocker potranno bloccare anche i vari strumenti di tracking, di cui i grandi editori abusano). Come ben scrive Charles Arthur, “mobile is the biggest platform. Adblocking is coming to a key mobile platform in September“.

La situazione sarà interessante. Come riporta il New York Times, già adesso l’uso di ad-blocker sta costando agli editori parecchi soldi:

In a report last week, Adobe and PageFair, an Irish start-up that tracks ad-blocking, estimated that blockers will cost publishers nearly $22 billion in revenue this year. Nearly 200 million people worldwide regularly block ads, the report said, and the number is growing fast, increasing 41 percent globally in the last year.

Il punto è, è immorale questa cosa? Secondo alcuni è ingiusto che i lettori decidano di bloccare la pubblicità, dato che è l’unico modo per certi siti di generare un guadagno e sopravvivere. Dal mio punto di vista, c’è pubblicità e pubblicità. I content blockers non sono altro che la risposta ai pop-up moderni: così com’è stato giusto, anni fa, offrire agli utenti la possibilità di bloccare gli abusati pop-up, è oggi giusto spiegare a quei siti che fanno uso di pratiche altrettanto indecenti che non siamo costretti a subire qualsiasi stronzata decidano di infilare nelle loro pagine. Un conto è un banner, tutto un altro conto è un banner che rimbalza sullo schermo, si chiude a fatica, inizia a riprodurre un video e mi blocca il contenuto che stavo tentando di leggere mentre nel frattempo mi scheda e inserisce in un database.

Questi siti la cui strategia è infastidire il lettore infestando le loro pagine con pubblicità invasiva, e raccogliere quante più informazioni sul lettore (ignaro), probabilmente avranno seri problemi a partire da Settembre. Ma è un problema mio o nostro? È un problema di Apple? Apple punta a offrire la migliore esperienza utente possibile, e questi metodi stanno davvero rovinando il web e la navigazione da Safari: il web è più lento, meno piacevole, e ricco di rischi a causa di queste pratiche. Le pubblicità spesso non sono semplici pubblicità ma pezzi di software, per non dire una specie di malware che raccoglie senza alcun consenso quanti più dati possibili sul visitatore. E questi malware costano traffico dati e privacy.

Per rubare le parole a Marco Arment:

Publishers, advertisers, and browser vendors are all partly responsible for the situation we’re all in. Nobody could blame the users of yesteryear for killing pop-up ad rates, and nobody should blame the users of 2015 for blocking abusive, intrusive, misleading, and privacy-stealing ads and trackers, even if it’s inconvenient for publishers and web developers. […]

Modern web ads and trackers are far over the line for many people today, and they’ve finally crossed the line for me, too. Just as when pop-ups crossed the line fifteen years ago, technical countermeasures are warranted.

Web publishers and advertisers cannot be trusted with the amount of access that today’s browsers give them by default, and people are not obligated to permit their web browsers to load all resources or execute all code that they’re given.

Ho resistito alla tentazione di bloccare la pubblicità a lungo, ma pochi mesi fa ho cambiato idea (sul Mac uso Ghostery). Credo non sia un dovere del lettore accettare qualsiasi cosa l’editore imponga, spesso in maniera poco trasparente. I content blocker permetteranno ai lettori di sapere cosa succede dietro le quinte e di intervenire se necessario. Ed è giusto così.

Ezra Klein:

[M]y guess is that within three years, it will be normal for news organizations of even modest scale to be publishing to some combination of their own websites, a separate mobile app, Facebook Instant Articles, Apple News, Snapchat, RSS, Facebook Video, Twitter Video, YouTube, Flipboard, and at least one or two major players yet to be named. The biggest publishers will be publishing to all of these simultaneously. […] The publishers of tomorrow will become like the wire services of today, pushing their content across a large number of platforms they don’t control and didn’t design.

Joshua Topolsky sul perché ha lasciato Bloomberg

The reality in media right now is that there is an enormous amount of noise. There are countless outlets (both old and new) vying for your attention, desperate not just to capture some audience, but all the audience. And in doing that, it feels like there’s a tremendous watering down of the quality and uniqueness of what is being made. Everything looks the same, reads the same, and seems to be competing for the same eyeballs. In both execution and content, I find myself increasingly frustrated with the rat race for maximum audience at any expense. It’s cynical and it’s cyclical — which makes for an exhausting and frankly boring experience. Joshua Topolsky, riguardo la decisione di abbandonare Bloomberg