Tanto io non ho nulla da nascondere
Un bel pezzo sul The Chronicle of Higher Education prova a spiegare perché i problemi relativi alla privacy interessano un po’ tutti, anche coloro che non hanno nulla da nascondere. Inquadrare la privacy come una questione che riguarda solo azioni di cui ci si vergogna e si preferirebbe tenere per sé è infatti sbagliato e riduttivo.
Per spiegarlo l’autore del pezzo, Daniel Solove, professore di legge alla George Washington University, lascia da parte 1984 di Orwell e utilizza invece Il processo di Kafka: una persona viene giudicata colpevole senza che venga messa a conoscenza delle ragioni che portano alla sua condanna. La privacy non riguarda insomma solo la raccolta dei dati, ma anche quanto l’individuo è consapevole che questi vengono raccolti, a quali soggetti secondari vengono passati, cosa ne viene fatto, come vengono analizzati, aggregati e incrociati (dati apparentemente innocui e anonimi possono rivelare molto, se aggregati) e quale conclusione ne viene tratta:
The problems portrayed by the Kafkaesque metaphor are of a different sort than the problems caused by surveillance. They often do not result in inhibition. Instead they are problems of information processing—the storage, use, or analysis of data—rather than of information collection. […] The nothing-to-hide argument focuses on just one or two particular kinds of privacy problems—the disclosure of personal information or surveillance—while ignoring the others. It assumes a particular view about what privacy entails, to the exclusion of other perspectives.