Quando nel 2007 Google acquistò il network pubblicitario DoubleClick, promise che i dati raccolti tramite l’ad tracking non sarebbero stati mischiati con gli altri dati che Google già ha sui propri utenti, grazie ai servizi che offre. In altre parole, Google promise che non avrebbe dato un nome e un cognome ai dati che avrebbe raccolto online: ai siti che visitiamo, o a come ci comportiamo e dove clicchiamo su questi siti.

Nel corso dell’estate, questa promessa è sparita dalla privacy policy:

But this summer, Google quietly erased that last privacy line in the sand – literally crossing out the lines in its privacy policy that promised to keep the two pots of data separate by default. In its place, Google substituted new language that says browsing habits “may be” combined with what the company learns from the use Gmail and other tools. […]

The move is a sea change for Google and a further blow to the online ad industry’s longstanding contention that web tracking is mostly anonymous. In recent years, Facebook, offline data brokers and others have increasingly sought to combine their troves of web tracking data with people’s real names. But until this summer, Google held the line.

La conseguenza è che ora, grazie alle pubblicità di DoubleClick sparse in giro per il web, e grazie a Gmail e agli altri servizi che l’azienda offre, Google può fornire pubblicità ancora più mirata e costruire profili dettagliati sui suoi utenti — basati su quello che scriviamo nelle email, sulle ricerche che facciamo e, ora, anche sui siti che visitiamo.

Timothy Geigner:

The war against ad blockers didn’t start when users began using the software. It started when online outlets refused to understand that content is advertising and advertising is content, and if any part of that equation is bad, the whole thing falls apart. There’s a reason why users use ad blockers after all: many online ads suck harder than a vacuum cleaner looking for love. But they don’t have to. Everyone has their stories about ads they have liked or loved. Some readers will always block ads, but not most of them. If ads were good and fun, they wouldn’t need to be blocked and users wouldn’t want to block them.

Gabriel Weinberg, fondatore e CEO di DuckDuckGo:

Abbiamo imposto limiti alla finanza, all’industria farmaceutica, a quella dei trasporti e alle telecomunicazioni. Perché non metterli anche all’online tracking? Dovrebbero esserci del limiti, specialmente ora che la tecnologia digitale si sta lentamente inserendo in più parti della nostra vita, e i dati raccolti diventano più e più importanti.

La question del dibattito dovrebbe essere: quali limiti? L’idea di raccoglierne quanti più possibili e rivelarne pochi deve sparire, c’è una via di mezzo fra “la massima collezione possibile di dati” e “il minimo necessario”. Ecco alcune cose che potremmo fare. Le aziende (e i governi) dovranno esplicitamente dichiarare e dirvi cosa ne faranno delle vostre informazioni personali. Devono permettere opt-out. Potrebbero anche fornire all’utenza un controllo granulare sui propri dati. Potrebbero persino dirvi cosa ci guadagnate in cambio di un certo pezzo di informazione. Ci sono molte opzioni.

Riguardo ad AdBlock ho un’opinione ambigua. Ne faccio un uso selettivo: quei siti che mi mettono della pubblicità come background della pagina e mi aprono ventisei popup per click possono stare certi che i miei occhi non incroceranno mai una loro pubblicità; non vedo però perché dovrei essere così stronzo da privare di possibili entrate, se non le uniche, quei siti (spesso di dimensioni ridotte) che mi trattano in maniera decente. Se un sito ha poca pubblicità, e inerente al contenuto, non la tolgo — a meno che non lo stia già supportando in un’altra maniera (molti offrono un’opzione per rimuoverla, previa iscrizione a un’abbonamento mensile; un sistema che sta sperimentando anche Google, con AdSense). Capisco chi rimuove la pubblicità per questioni legate alla privacy e raccolta dei dati personali, non capisco chi ha problemi con uno o due spazi pubblicitari (mi sembra un discorso simile al volere e pretendere che le applicazioni su iPhone siano tutte gratuite o, al massimo, non superino i 99 centesimi).

Comunque, non c’entra con la notizia: AdBlock Plus ha stretto un accordo con Microsoft, Google e Amazon per evitare che alcune loro pubblicità vengano filtrate dal sistema. Dopo aver fornito un’opzione per rimuovere la pubblicità, AdBlock Plus chiede soldi ai medesimi siti per ripristinare la loro pubblicità. Gruber parla di estorsione. Che l’opzione esista è di per sé vergognoso.