Sovraccaricati di informazioni
According to a 2011 study, on a typical day, we take in the equivalent of about 174 newspapers’ worth of information, five times as much as we did in 1986. — New York Times, Hit the Reset Button in Your Brain
According to a 2011 study, on a typical day, we take in the equivalent of about 174 newspapers’ worth of information, five times as much as we did in 1986. — New York Times, Hit the Reset Button in Your Brain
Alcuni consigli che editori di quotidiani, magazine e blog dovrebbero seguire nel presentare i loro contenuti online:
Imitating books, newspapers, and magazines worked well because most of us are used to reading them for decades. This isn’t the case anymore. Both the medium and the reader have evolved. We no longer need these classic metaphors because we’ve gotten used to hardware as an actual medium for reading.
La scorsa settimana è uscito il NYT Innovation Report, un documento di 96 pagine interno al New York Times in cui si provano ad analizzare, spiegare e valutare le strategie che il quotidiano sta adottato per adattarsi (sopravvivere?) a internet. Ne sono uscite alcune cose risapute — ma confermate con dati — e altre riflessioni interessanti.
Il valore dell’homepage va diminuendo. Le persone raggiungono le notizie attraverso i social media. Trovano non solo le storie più valide oggettivamente ma anche soggettivamente: le più adatte ai loro gusti. In due anni l’homepage ha perso 80 milioni di visitatori.
Only a third of our readers ever visit it. And those who do visit are spending less time: page views and minutes spent per reader dropped by double-digit percentages last year.
L’archivio è importante. Il New York Times ha 14.7 milioni di articoli nel suo archivio, a partire dal 1985. Andrebbe valorizzato: certe storie hanno valore nel tempo e possono venire riproposte. La vita media di una storia su uno stream di Twitter è bassissima, ma non c’è ragione per non provare ad allungarla rilanciandola nel tempo. È una questione che avevamo già affrontato qua: perché così pochi giornali propongono ai lettori pezzi dal loro archivio?
We can be both a daily newsletter and a library — offering news every day, as well as providing context, relevance and timeless works of journalism.
Un grosso problema nella gestione dell’archivio è stata la scarsa organizzazione dello stesso negli anni: occorre migliorarla, dare più attenzione ai metadata, ai tag e a strumenti che permettono di correlare e gestire gli articoli.
Riconfezionare i contenuti — vecchi contenuti in nuovi formati. Di nuovo: riproporre cose vecchie. Il futuro del New York Times dipende soprattutto dalla capacità di sfruttare i nuovi strumenti per promuovere i suoi contenuti e organizzarli con metodi differenti:
The product and design teams are developing a collections format, and they should further consider tools to make it easier for journalists, and maybe even readers, to create collections and repackage the content.
Ci vuole più impegno sui social media: da parte degli stessi giornalisti che devono impegnarsi nel promuovere i loro articoli. Il compito della diffusione di un pezzo spetta anche — e soprattutto — a loro:
For someone with a print background, you’re accustomed to the fact that if it makes the editor’s cut — gets into the paper — you’re going to find an audience. It’s entirely the other way around as a digital journalist. The realization that you have to go find your audience — they’re not going to just come and read it — has been transformative.
Vogliono uno strumento che faciliti e automatizzi la creazione di Snow Fall (“I’d rather have a Snow Fall builder than a Snow Fall” — Kevin Delaney). Comunque nel report non si parla molto di Long-Form e Snow Fall. Come ha rilevato Craig Mod sembra che il New York Times spinga adesso per progetti più semplici. L’obiettivo è di trovare la maniera più adatta a visualizzare un’informazione. Scrive Craig Mod su Medium:
“Snow Fall” was less about what felt natural in a web browser or what was best for the story, and more about what was maximally possible in a web browser. The experiment just happened to be attached to an article. Great storytelling is not about maximizing technical possibility.
It’s easy to throw the kitchen sink into a web site and call it the future. It’s much harder to use an obvious technology well and have it be part of your institution’s future.
L’obiettivo, come segnalato nel punto 3, è capire quale sia per ogni storia il mezzo (o i mezzi, spesso) più adatto per narrarla.
Se non altro nella maniera in cui leggevamo un tempo: il modo di consumare le informazioni in rete, e di muoversi all’interno di essa, ha influenzato il nostro stile di lettura, e secondo alcuni neuroscienziati, come Maryanne Wolf, oggi al deep reading — le lettura immersiva — preferiamo lo skim reading: ovvero scandagliamo il testo alla ricerca di informazione da estrapolare, per passare in fretta a quello successivo.
But it’s not just online anymore. She finds herself behaving the same way with a novel. “It’s like your eyes are passing over the words but you’re not taking in what they say,” she confessed. “When I realize what’s happening, I have to go back and read again and again.”
Robert Cottrell — che passa il suo tempo a leggere articoli per poi segnalarli sul suo sito, The Browser — si chiede perché i giornali investano poco o nulla nel loro archivio, nel dare nuova vita e spazio a pezzi di un anno fa, nonostante molti di questi mantengano la loro rilevanza nel tempo:
You never hear anybody say, “I’m not going to listen to that record because it was released last year,” or, “I’m not going to watch that film because it came out last month.” Why are we so much less interested in journalism that’s a month or a year old? The answer is that we have been on the receiving end of decades of salesmanship from the newspaper industry, telling us that today’s newspaper is essential but yesterday’s newspaper is worthless.[…] [Online] you can call up a year-old piece as easily as you can call up a day-old piece. And yet we hardly ever do so, because we are so hardly ever prompted to do so. Which condemns tens if not hundreds of thousands of perfectly serviceable articles to sleep in writers’ and publishers’ archives, written off, never to be seen again.
You have to want to be jacked into the Internet all day long, every day. This is not the life most journalists imagined when they were looking at 1970s magazines. — Alexis Madrigal
Settimana scorsa l’Atlantic ha chiesto al giornalista Nate Thayer di poter pubblicare un suo pezzo gratuitamente. La faccenda è stata molto dibattuta in rete, attirando opinioni e contributi da diversi giornalisti e esperti del settore (se avete tempo e interesse per il tema vi invito a leggere la discussione nata su Branch): se l’Atlantic non avrebbe semplicemente potuto fare un cross-posting (ovvero riprendere parte dell’articolo, pratica che non richiede alcun costo, e rimandare il lettore alla fonte originaria per una lettura completa), se sia accettabile che una testata chieda a un giornalista di scrivere pezzi gratuitamente pagando solo in visibilità, e — questione più importante di tutte — se semplicemente non sia anacronistico aspettarsi che il lavoro del freelance sia e possa essere lo stesso di un tempo (“The economics of writing have changed”, scrive Mathew Ingram su PaidContent).
Fra i contributi che si focalizzano sull’ultimo punto c’è quello di Felix Salmon di Reuters, che spiega bene come sono cambiate le cose e perché essere un giornalista freelance “in rete” non può più significare scrivere un pezzo e basta, ma occorra fare molto di più:
The fact is that freelancing only really works in a medium where there’s a lot of clear distribution of labor: where writers write, and editors edit, and art directors art direct, and so on. Most websites don’t work like that, and are therefore difficult places to incorporate freelance content. […] The lesson here, then, is not that digital journalism doesn’t pay. It does pay, and often it pays better than print journalism. Rather, the lesson is that if you want to earn money in digital journalism, you’re probably going to have to get a full-time job somewhere. Lots of people write content online; most of them aren’t even journalists, and as Arianna Huffington says, “self-expression is the new entertainment”. Digital journalism isn’t really about writing, any more — not in the manner that freelance print journalists understand it, anyway. Instead, it’s more about reading, and aggregating, and working in teams; doing all the work that used to happen in old print-magazine offices, but doing it on a vastly compressed timescale.
Interessante pezzo di Clay Shirky su Poynter, in cui l’autore sottolinea una conseguenza della vastità delle opinioni disponibili in rete (e di persone disposte a sostenerle):
Siamo meno disposti a concordare su cosa costituisce la verità, ma non perché siamo recentemente diventati testardi. Siamo sempre stati così. Solo non eravamo a conoscenza di quante altre persone erano così.
La relativizzazione dei fatti e la frammentazione delle opinioni[1. E il fatto che siamo convinti delle stesse, indipendentemente dalla loro validità. Una conseguenza della polarizzazione delle idee] fa sì che ci sia sempre qualcuno che non concorda su quanto affermato e ritenga che la sua opinione abbia diritto ad avere uguale spazio e diffusione di quella altrui, anche se non ha alcun collegamento con la realtà e non è supportata da fatti.
Per questa ragione, il fact-checking è probabilmente uno dei ruoli più importanti che i giornali possono coprire e uno dei modi in cui possono ritrovare autorità e importanza nel nuovo panorama mediatico. La soluzione non è dare uguale spazio a qualsiasi opinione, ma valutare la varietà di opinioni disponibili e selezionare quelle che hanno un senso scartando le restanti:
I giornalisti devono operare in un mondo dove nessuna dichiarazione, per quanto triviale, sarà completamente al sicuro da una smentita. […] Un mondo nel quale ipoteticamente tutte le affermazioni sono disponibili, rende il giornalismo del “lui ha detto, lei ha affermato” una forma di giornalismo sempre più irresponsabile, [da ritenere] sempre meno una via per instaurare un dibattito moderato e sempre più una strada per evadere la responsabilità di informare il pubblico. Cercare la verità consiste sempre meno nella ricerca del consenso, dato che ce ne è meno nel mondo, e sempre più riguarda smistare gli attori rilevanti da quelli irrilevanti. I giornalisti non possono più fare affidamento sugli esperti, come se ogni professore o ricercatore fosse in ugual modo affidabile.
Nel mondo di oggi essere un giornalista non ben alfabetizzato con la tecnologia è come essere un pilota che non è bravo ad atterrare —The Guardian
Nel terzo episodio di The Newsroom (la nuova serie televisiva di Sorkin), il protagonista, un anchorman di un notiziario via cavo, dice una cosa molto giusta che si ricollega alla necessità di farci piacere anche le notizie che non ci interessano, o meglio: dare ai lettori quello che vogliono da un punto di vista commerciale funziona molto bene, si veda Gawker, ma il giornalismo non consiste in quello:
We’ll be the champion of facts and the mortal enemy of innuendo, speculation, hyperbole and nonsense. We’re not waiters in a restaurant, serving you the stories you asked for, just the way you like them prepared. Nor are we computers, dispensing only the facts because news is only useful in the context of humanity. I’ll make no effort to subdue my personal opinions. I will make every effort to expose you to informed opinions that are different from my own.
C’è molto su cui riflettere, in pochi minuti. Che il ruolo del giornalista non sia tanto quello di “dare le notizie”, che esistono di per sé, e sono reperibili altrove, ovunque, ma nella contestualizzazione e spiegazione che il giornalista è in grado di offrire in merito a queste notizie. Nel contesto, che è importante tanto quanto la notizia (e che è anche più difficile da costruire).