Secondo Thom Holwerda, che scrive su OSNews, nei prossimi anni Android subirà una trasformazione radicale volta a lasciarsi alle spalle alcuni dei problemi fondamentali che Google negli anni non è riuscita a risolvere, ma che porterà anche all’abbandono di Linux.

Da dove viene il sospetto? Molte risorse e diversi fra i principali sviluppatori di Google stanno lavorando su Fuchsia — un sistema operativo sperimentale, dice Google —, invece che su Android:

Android in its current form suffers from several key architectural problems – it’s not nearly as resource-efficient as, say, iOS, has consistent update problems, and despite hefty hardware, still suffers from the occasional performance problems, among other things – that Google clearly hasn’t been able to solve. It feels like Android is in limbo, waiting for something, as if Google is working on something else that will eventually succeed Android.

Is that something Fuchsia? Is Project Treble part of the plan, to make it easier for Google to eventually replace Android’s Linux base with something else? If Android as it exists today was salvageable, why are some of the world’s greatest operating systems engineers employed by Google not working on Android, but on Fuchsia? If Fuchsia is just a research operating system, why did its developers recently add actual wallpapers to the repository? Why does every design choice for Fuchsia seem specifically designed for and targeted at solving Android’s core problems?

La maggioranza dell’utenza Android non vede le emoji introdotte con Unicode 9, nonostante Google sia stata molto rapida nell’inserirle dentro l’ultima versione di Android. Al posto delle nuove emoji, vedono rettangoli vuoti. Jeremy Burge di Emojipedia spiega perché:

New emojis are bundled with system updates for iOS and Android, as emoji fonts and relevant Unicode support is provided at an OS level.

This system should work well, but the weak link is relying on manufacturers to provide updates in a timely manner.

Aggiornamenti che non arrivano mai, al punto da spingere WhatsApp ad utilizzare le emoji di Apple su qualsiasi piattaforma:

Snapchat, Messenger, WhatsApp, Telegram and Slack all use emoji-replacement images on Android; in a trend started by Twitter with Twemoji which was released when the most popular browser on Windows (Chrome) didn’t include emoji support.

Google ha fatto delle app istantanee, che si possono aprire senza prima doverle scaricare:

Someone sends you a “deep link” from an app—that’s a link that might go all the way to a product or piece of media—and when you tap it, the app just appears on your phone in that exact spot. So it will take you right to, say, a pair of shoes on Zappos. The UI is fully functional, too—its buttons will actually work. And your payment information is even stored inside Google, so you can feasibly buy those shoes without entering your credit card or shipping info.

Serve in quei casi in cui l’applicazione ha un singolo scopo o una singola funzionalità — normalmente, app di questo tipo vengono scaricate per venire utilizzate due o tre volte. Oppure quando un link sul web tenta di aprire una parte di un’app (come nel caso di Medium o YouTube).

Lorenzo Franceschi Biccherai ha deciso di abbandonare il suo smartphone Android per un iPhone, perché più sicuro.

Spiega su Motherboard:

Google still has very little control over software updates, and Android users are basically at the mercy of their carriers and phone manufacturers when it comes to getting updates or new operating system versions. For example, it took Sony more than six months to push Android 5.0 Lollipop to its new line of Xperia Z phones, despite the fact that it had promised for a much shorter turnaround after Lollipop was released by Google. Just for comparison’s sake, when Apple released iOS 8 in September of last year, it immediately became available for all iPhone users, even those with an 2011 iPhone 4S. […]

As security researcher Nicholas Weaver put it in a (now deleted) tweet, ”Imagine if Windows patches had to pass through Dell and your ISP before they came to you? And neither cared? That is called Android.”

Gli aggiornamenti sono lenti e impiegano mesi ad arrivare all’utente (beh, non è detto che arrivino). La decisione di Google di permettere a operatori e produttori di modificare Android come gli pare e piace (ovvero di imbruttire l’UI e riempire il telefono di software inutile) impedisce a Google di aggiornare rapidamente un telefono, dato che l’aggiornamento deve anche passare dal produttore [1. Per nulla incentivato a supportare questi costi: vi ha già venduto il telefono, e ha poco interesse a tenerlo aggiornato] e dall’operatore. Il tutto a grande discapito della sicurezza.

Ben Thompson suggerisce che l’Apple Watch — assieme alle fondamenta poste da iOS 8, con HealthKit e HomeKit — sia parte di una strategia per portare iOS in ogni ambito della nostra vita, e trasformarlo lasciandosi in parte dietro l’iPhone e gli smartphone:

And a new market is exactly where the iPhone is headed: Apple is on the verge of leaving the narrowly-defined smartphone market behind entirely, instead making a play to be involved in every aspect of its consumers’ lives. And, if the importance of an integrated experience matter more with your phone than your PC, because you use it more, how much more important is an integrated experience that touches every detail of your life?

In fact, if there is a flaw in this vision, it’s that even pulling an iPhone from your pocket is too cumbersome. What if you could interact with your home, your car, retail, the cloud, or even your own body with something even more personal and accessible?

Come ricorda Ben, solamente fino a un paio di anni fa la rete era inondata di discussioni su come — e se — iOS sarebbe riuscito a sopravvivere ad Android; Clayton Christensen (The Innovator’s Dilemma) ha sempre sostenuto che i primi prodotti di un’industria nascente — solitamente chiusi e estremamente controllati — vengono con il maturare del settore rimpiazzati da alternative più aperte e integrate. La tesi di Ben Thompson è che Apple abbia costruito un ecosistema aperto secondo certe regole, e stia funzionando:

From  the hardware perspective the iPhone is quite modular. Apple has 785 different suppliers, and while not all of them contribute to the iPhone, the vast majority do, making everything from screws to memory to camera lens assemblies. In fact, while I don’t know how many suppliers are in the Samsung supply chain, I’d wager it’s fewer than the iPhone’s, simply because Samsung itself is a component manufacturer. In other words, from a pure hardware perspective, it is Samsung that is more integrated than Apple. […]

Apple products have many modular components wrapped inside an integrated experience

Google ha rivelato (è un’anteprima, per sviluppatori) Android Wear, una versione di Android creata apposta per i wearable device (smartwatch), capace di indovinare e anticipare quello di cui l’utente ha bisogno attraverso diversi sensori, in grado di raccogliere informazioni sempre grazie a questi, e la cui sorgente principale di input dall’utente è audio:

Small, powerful devices, worn on the body. Useful information when you need it most. Intelligent answers to spoken questions. Tools to help reach fitness goals. Your key to a multiscreen world.

Io nel frattempo ho un Pebble con schermo in bianco e nero e totalmente dipendente da uno smartphone per il suo funzionamento.

Motorola realizzerà il concept di Phonebloks, quel video che tutti i vostri amici di Facebook hanno condiviso con entusiasmo un mese fa. Google, dopo aver frammentato il software, vuole che anche l’hardware su cui Android gira sia quanto più diversificato e incasinato possibile.

Ovviamente, il post con cui Motorola ne dà annuncio è pieno di parolone sull’apertura del progetto:

  • Open fuels innovation.
  • Project Ara is developing a free, open hardware platform.
  • Open relationship between user

Cosa resta di aperto in Android

Google sta cercando di riprendersi il controllo di Android, rendendo aspetti sempre più importanti del sistema operativo proprietari: non è più così vantaggioso, né semplice, creare fork personalizzate.

Sei anni fa, Google annunciò l’Android Open Source Project. In sei anni un OS che aveva lo 0% del mercato è arrivato ad averne quasi l’80%: nato inizialmente per proteggere i servizi di Google (da una possibile egemonia di Apple che avrebbe potuto escluderli a suo piacimento) è diventato importante di per sé. Forse un po’ per questo, la natura open source del sistema è cambiata. È facile e conveniente dare via tutto quando hai lo 0% del mercato, lo è di meno quando inizi ad avere un’ampia fetta e temere di perderne il controllo. Per quanto una parte di Android resti open source, nel corso degli anni parti sempre più ampie dell’OS sono state portate sotto l’ombrello di Google e rese, come conseguenza, proprietarie.

In un recente articolo Ars Technica ha riassunto la strategia di Google per mantenere il controllo su Android e rendere sempre più difficile, a chi lo volesse, di sviluppare una versione alternativa dell’OS (una fork) partendo dalla parte open dello stesso. La cosa ha funzionato così: le stock app inizialmente open source sono state rimpiazzate (e abbandonate) a favore di applicazioni brandizzate Google. La migrazione è iniziata con Search, rimpiazzata da Google Search nel 2010: la prima era un box di ricerca, la seconda permette ad oggi la ricerca via voce, abilita Google Now e, di fatto, ha stabilito anche la fine dello sviluppo della versione open source a favore di un sostituto chiuso. A tutte le stock app è toccata nel tempo la stessa sorte: l’applicazione per l’ascolto di musica? Rimpiazzata da Google Play Music. Il calendario? Ecco Google Calendar. L’applicazione per i messaggi? Abbandonata a favore di Google Hangout. Pure la tastiera e la fotocamera sono state sostituite, la prima da Google Keyboard, la seconda da Google Camera che offre in più le foto panoramiche e, guarda caso, non è open source.

Le stock app open source sono state tutte abbandonate in favore di alternative chiuse. Di un Android aperto restano solo delle (fragili) fondamenta. Chi decide di utilizzarle — si pensi a Amazon — per costruirci una versione personalizzata dell’OS va incontro a una serie di problemi come l’impossibilità di avere accesso a tutte le (nuove) applicazioni chiuse di Google — e ai suoi servizi — e la necessità di dovere sviluppare in casa dei sostituti. Si legge, dal blog ufficiale di Android:

While Android remains free for anyone to use as they would like, only Android compatible devices benefit from the full Android ecosystem.

Non solo: di recente Google ha cominciato a chiudere anche le API. Significa che se sviluppate un’applicazione per Android questa, molto probabilmente, non funzionerà sui device non approvati (come il Kinde Fire). Ecco perché Amazon ha una pagina in cui spiega agli sviluppatori come supportare le mappe di Nokia (perché quelle di Google cessano di funzionare, sul Kindle) o ha dovuto creare l’Amazon Device Messaging per offrire un’alternativa alle notifiche push (che Google ha sviluppato, ma non offre a chi decide di creare una fork di Android). Giunti a questo punto, abbandonare Android per sviluppare una versione personalizzata dello stesso — come da tempo si vocifera sia nei piani di Samsung — comincia ad essere nient’altro che un sogno. Se persino le applicazioni di terze parte smettono di funzionare sui device non approvati da Google (essendo queste legate alle API proprietarie offerte da Google) se ne va uno dei vantaggi principali: quello di offrire all’utente, costruendo il proprio OS partendo da Android, l’accesso a un app store ben fornito. Il piano, spiegato con le parole di Ars Technica:

Fare proprio l’app store di Google sembra facile: costruisci un tuo app store e convinci gli sviluppatori a caricare le loro applicazioni su questo. Ma le Google API che vengono fornite con i Google Play Services servono proprio a convincere gli sviluppatori a lasciare che le loro applicazioni dipendano da Google. La strategia di Google con i Play Services è trasformare l’ecosistema di Android in un “Google Play Ecosystem“, rendendo la vita agli sviluppatori il più possibile facile sui device approvati da Google — e quanto più difficile sui restanti.

Parti fondamentali dell’OS che si è sempre definito “aperto” sono diventate proprietarie. Lo scorso Giugno, alla conferenza I/O, Google ha annunciato di avere riscritto le location API. In breve si tratta dei servizi di localizzazione, una parte fondamentale di un sistema operativo mobile che è stata resa più efficiente e aggiornata con nuove funzioni. Ovviamente, ora viene offerta come parte dei Google Play Services. Il che comporta questo: un altro pezzo di Android che diventa proprietario.

La frammentazione di Android, visualizzata

Sotto quel punto di vista le cose, dicono, vanno sempre peggio. Open Signal ha creato dei grafici interattivi che mettono la situazione in chiaro. Qua sopra: a sinistra le differenti dimensioni dello schermo di tutti i device che usano Android, a destra la stessa cosa ma per quanto riguarda iOS.

Android è aperto anche nel senso che permette a operatori e produttori di modificarlo a piacimento, inserendo software aggiuntivo inutile (con scopo perlopiù pubblicitario) e modificando aspetti e funzioni dell’OS, per personalizzarlo. Android di per sé non è terribile, peccato che la maggior parte dei suoi utenti non avranno mai a che fare con Android come l’ha pensato Google, ma con Android come l’ha cambiato Samsung e, successivamente, l’operatore presso cui hanno sottoscritto il contratto. Ne ha scritto Farhad Manjoo su Slate:

This is one of the most important advantages Apple has over Android devices. When you buy an iPhone, it works exactly as Apple intended; it’s never adulterated by “features” that the company didn’t approve. But when you buy an Android phone, even a really great one, you’re not getting the device that Google’s designers had in mind when they created the OS. You’re not even getting the device that the phone manufacturer—Samsung and HTC, in this case—had in mind. Instead you’re getting a bastardized version, a phone replete with software that has been altered by many players along the way, usually in a clumsy, money-grubbing fashion.

“Open always wins”, eppure non succede mai. Un editoriale di Apple Insider spiega perché l’apertura di Android non torna a vantaggio dello stesso ed è diventata più che altro un’etichetta pubblicitaria. Le aziende hanno successo non essendo sempre e comunque aperte, ma mischiando modelli e tecnologie open assieme a altri proprietari.

Si pensi a Samsung, l’azienda che ha avuto più successo adottando Android: ha modificato Android con funzioni e design proprietari; sponsorizzando i suoi smartphone in maniera identica a Apple.

Some significant portion of Apple’s success with MacBooks over the past decade was certainly due to OS X’s ability to serve as an excellent version of Unix, a feature that attracted many open source enthusiasts and developers who wanted the familiarity of an open Unix system with the slick integration of a well designed, proprietary product.

So rather than “open” being a binary condition that makes companies who claim adherence to it successful at the expense of those who are “closed” and proprietary, the reality is that successful companies can adopt open software in areas that make sense, but they will derive most of their profits from proprietary activity.

Horace Dediu:

Facebook Home può funzionare su Android solo perché Google è stata così stupida dal permetterlo.

Come da punto tre di questa mia lista. Vedremo cosa succederà, adesso che un’azienda in diretta competizione con Google — come ha sottolineato Matt Drance, si rubano gli stessi clienti: gli inserzionisti — è riuscita a sostituire i suoi servizi con quelli di Google. L’apertura di Android per la prima volta viene sfruttata appieno: si rivela piuttosto scomoda.

Cinque frammenti su Facebook Home

Cinque cose.

(Da vedere: il video dell’annuncio in cinque minuti, grazie a The Verge)


La prima, non è un telefono Facebook, idea che non avrebbe avuto senso ma che da un anno rimbalzava sulla stampa. Come ha ben spiegato Zuckerberg a WIRED:

If we did build a phone, we’d only reach 1 or 2 percent of our users. That doesn’t do anything awesome for us. We wanted to turn as many phones as possible into “Facebook phones.” That’s what Facebook Home is.

La due, il problema del mettere gli amici al centro dell’OS è che può venire fuori che i suddetti amici non sono poi così interessanti. Twitter questo problema non ce l’ha perché è stato creato per seguire gli interessi, non per seguire gli amici. Mentre Facebook gli amici li sopravvaluta e, soprattutto, li accumula: mischia quelli che abbiamo adesso a quelli di dieci anni fa. Di quest’ultimi può essere carino sapere cosa fanno e come stanno nel momento in cui gli si chiede l’amicizia, ma non vuoi ritrovarti i loro update all’accensione del telefono, tutti i giorni, ad ogni ora. Shawn Blanc su Twitter:

All my Facebook Home Cover Feed shows is blurry pictures of hamburgers and closeups of babies I don’t know.

La tre, non è una buona notizia per Google. Android si rivela utile a tutti meno che a lei. Se poi adesso Facebook riesce a infilarsi nel suo OS sostituendo le funzioni sociali di Google con le proprie, finisce che non gli torna neppure più utile come ponte verso i suoi servizi.

La quattro, è la solita quando si parla di Facebook: privacy. Ne ha scritto Om Malik su GigaOM:

The phone’s GPS can send constant information back to the Facebook servers, telling it your whereabouts at any time. So if your phone doesn’t move from a single location between the hours of 10 p.m. and 6 a.m. for say a week or so, Facebook can quickly deduce the location of your home.

La cinque, per animazioni/grafica è forse la cosa migliore vista su Android ad oggi. Sfruttando appieno l’apertura di Android (una cosa così, su iOS, è impossibile).

Se va avanti così, Android potrebbe rivelarsi utile a tutti meno che a Google. Lo spiega bene Dan Frommer sul suo blog:

Much of the conversation is about how little power Google really has over Android. […] Amazon has basically taken all of Google’s hard work and run away with it. […] Android has done little to make Google more profitable. If anything, it’s made a huge crater in the balance sheet with the Motorola acquisition.

Gli smartphone sono diventati noiosi

Samsung si trova in questi giorni, come conseguenza del lancio del nuovo Galaxy S4, nella stessa situazione e con gli stessi problemi con cui si era ritrovata Apple alla presentazione dell’iPhone 5. “È noioso” è il commento più diffuso, che ci può anche stare: una volta raggiunta una certa maturità e stabilità ogni tecnologia migliora per piccoli e progressivi aggiornamenti, non con rivoluzioni continue, a cadenza annuale. È un processo iterativo. Come scrive Matt Buchanan sul New Yorker:

Consumer technology does move fast but only so fast. It is largely an iterative process, every pixel added and millimetre shaved through the force of will of gargantuan corporations, driven by many thousands of employees. This is why the iPhone 5 so closely resembles the iPhone 4S that came before it, whose external design was a carbon copy of the iPhone 4—a design that Apple developed in 2006. The iPhone 5 is a product of Apple’s continuing refinement.

Ciò che non ci può stare è la conclusione a cui molti erano staltati con il lancio dell’iPhone 5: siccome è solo più lungo, e i miglioramenti marginali, allora significa che Apple non è più in grado di innovare. Quello che significa, semmai, è che l’hardware è oramai maturo a sufficienza da richiedere soprattutto lievi aggiustamenti che ovviamente non sono in grado di stupirci. Probabilmente le cose più interessanti le vedremo da qui in poi — se non altro nel breve termine — a livello software, piuttosto che hardware. Non immagino un iPhone 6 che sia radicalmente differente dal 5, ma riesco a immaginare ampi margini di miglioramento e cambiamento per un iOS 7.