Nell’ultimo numero del New Yorker il giornalista Malcolm Gladwell ha riassunto in un articolo, “The Tweaker“, l’essenza delle più di 600 pagine che compongono la biografia di Steve Jobs. Il vero genio dell’uomo – almeno secondo l’interpretazione di Gladwell – non è stato tanto l’aver inventato qualcosa quanto l’aver perfezionato quello che già esisteva.

“La sensibilità di Jobs era più editoriale che inventiva”, ovvero Jobs era uno che prendeva le idee degli altri, idee ed invenzioni che già esistevano, e le migliorava. Era un editore più che un inventore: selezionava le migliori idee in circolazione e si preoccupava di raffinarle, di modificarne piccoli dettagli e caratteristiche, di rifinirle, di renderle perfette.

Questo genere di modifiche, da molti ritenute di seconda importanza, superficiali e non incidenti, si rivelano in realtà essenziali per il progresso. Possono rendere un’invenzione da semplicemente buona a ottima:

Nei memoriali, lo scorso mese, Jobs è stato più volte descritto come un visionario di larghe vedute ed un inventore. Ma la biografia di Isaacson suggerisce piuttosto che fosse un editore. Prese in prestito le caratteristiche del Macintosh – il mouse le icone – dagli ingegneri dello Xerox PARC dopo la sua famosa visita, nel 1979. Il primo riproduttore portatile di musica digitale uscì nel 1996. Apple presentò l’iPod nel 2001 perché Jobs aveva dato uno sguardo ai modelli in commercio e aveva concluso che facevano “veramente schifo”.  Gli smartphone iniziarono a uscire verso la metà degli anni 90. Jobs introdusse l’iPhone nel 2007, più di dieci anni dopo perché, scrive Isaacson, “aveva notato qualcosa di strano riguardo ai telefoni sul mercato: facevano tutti pena, esattamente come una volta i riproduttori di musica digitale.”

Jobs, in definitiva, era un editore. La sua grande abilità consisteva nel saper prendere il buono di quel che gli stava di fronte e metterne a punto le parti imperfette fino a renderle perfette. Raffinare il prodotto con piccoli, ma significativi, cambiamenti.