Il piacere di leggere in un’epoca di distrazioni

Mi scontro con sempre maggiore frequenza in testimonianze di persone, un tempo avide lettrici, che lamentano di non essere più in grado di leggere con l’attenzione e l’immersione che anni fa erano solite raggiungere. Non leggono più, o leggono superficialmente. Non sono più capaci di ignorare l’ambiente circostante e perdersi all’interno della narrazione. Capita con i libri, ma non solo: capita anche con gli articoli che superano le tre pagine. E capita anche a me: ad un certo punto, inizio a chiedermi se non ci sia altro di meglio in giro, a guardare il cellulare, a leggere i tweet e i feed rss. Mi distraggo.

Ne parlo perché settimana scorsa ho letto un libro molto interessante a riguardo: “The Pleasure of Reading in an Age of Distraction“. L’ha scritto Alan Jacobs nel 2010, ed inizia con una citazione a “The Shallows” (pubblicato in Italia con questo titolo: “Internet ci rende stupidi?“), un saggio di Nicholas Carr:

Negli ultimi due anni, ho avuto l’inconfortevole presentimento che qualcuno, o qualcosa, stesse giocando con la mia mente, riprogrammando i circuiti neuronali. La mia mente non se ne sta andando ma sta cambiando. Non penso più nel modo in cui ero solito pensare. Riesco a sentirlo soprattutto quando sto leggendo. Immergere me stesso in un libro o in un lungo articolo mi risultava facile. La mia mente si lasciava prendere dalla narrazione, e spendevo ore passeggiando lungo tratti di prosa. Questo mi succede raramente oramai. La mia concentrazione inizia a svanire dopo due o tre pagine. Divento irrequieto, perdo il filo, inizio a cercare altro da fare. Il deep reading che era solito venirmi naturale è diventato una lotta.

L’idea di fondo di Jacobs è che, al contrario di quel che potrebbe sembrare, i lettori non stiano diminuendo, che non siano meno di un tempo le persone che si perdono all’interno di un libro, le persone che – per citare Lynne Sharon Schwartz – dicono “Ho fatto quello che le altre persone fanno, posso tornare ai miei libri adesso?”

La tecnologia non sta uccidendo i lettori, anche perché il libro stesso era una tecnologia: piuttosto, i lettori sono sempre stati una minoranza e sempre lo resteranno. Ma allora, non sta succedendo nulla? No, Jacobs riconosce che ultimamente molti, a causa della rete, si sono distratti. Ma crede anche che col tempo e con la volontà – e soprattutto con questa, intesa come desiderio di leggere, più che forza di volontà – quelle stesse persone possano riacquistare la capacità di perdersi all’interno di un testo. Tuttavia, sottolinea, quelle che ce la faranno saranno comunque poche, una minoranza, perché la maggior parte della gente non trae piacere della lettura, non è interessata ad essa se non come mezzo attraverso cui diventare più saggia. Non vede la lettura come fine a se stessa ma come uno strumento attraverso cui ricavare informazioni.

Ma per capire il discorso, è necessario prima definire cosa sia la lettura. Jacobs si concentra su quel tipo di lettura che definisce con il termine “deep reading“, in contrasto con lo “skim reading“. Lo skim reading consiste nel scandagliare velocemente una pagina riuscendo ad estrapolarne le informazioni principali senza doverla leggere per intero. Questo tipo di lettura è fondamentale nell’epoca in cui viviamo ed è bene saperla praticare, soprattutto in rete. Tuttavia, Jacobs è più interessato al deep reading, meno diffuso.

Il deep reading comporta, come il termine stesso suggerisce, una lettura intensa, un’immersione nel testo. Significa quindi che ti dimentichi di quel che hai attorno e ti perdi totalmente nella narrazione, lasciandoti trasportare e catturare da essa. È ovvio, una volta spiegate le differenze fra le due diverse modalità, che corrispondono anche a due tipi di testi differenti:

  • Il primo tipo, lo skim reading, è utile in rete, durante lo studio, con saggi e documenti. Libri con cui dobbiamo continuamente fare una pausa, interrompere la narrazione per riflettere su quanto abbiamo letto e magari scrivere a margine degli appunti.
  • Il deep reading, invece, corrisponde ai romanzi. Corrisponde a quei tipi di testo con cui dobbiamo smettere di interessarci del mondo esterno per entrare all’interno del mondo narrato.

Secondo Jacobs, come ho già anticipato, il deep reading è sempre stato praticato da una minoranza di persone e sempre lo sarà. Perché il deep reading comporta anche un’altra cosa: che uno tragga piacere, da esso. Uno dei passaggi fondamentali di “The Pleasure of Reading in an Age of Distraction” è infatti questo: leggete non per diventare più saggi, non per trarre informazioni da un saggio, ma per il vostro piacere. Non trasformate la lettura nell’equivalente intellettuale di consumare verdura organica, ammonisce Jacobs.

Di conseguenza, leggete per leggere. Read at Whim, è il comandamento ripetuto più volte nel saggio:

Dimenticate per un attimo come i libri dovrebbero essere letti: perché dovrebbero essere letti? La prima ragione è che leggere libri può essere immensamente piacevole. Leggere è uno dei grandi piaceri umani.

Questo tipo di lettura non tocca tutti. Molti non traggono piacere dal leggere libri. Ma poniamo che voi rientriate nella prima categoria di persone, quelle che devono assolutamente leggere perché la lettura è per loro fonte di piacere e che dunque sono tristi, di aver perso questa capacità ultimamente: come fare a riacquistarla?

Jacobs dà delle istruzioni, degli avvertimenti. Il primo dei quali è: leggete con calma. Leggiamo tutti troppo velocemente, anche se non ce ne rendiamo conto. Questo perché spesso abbiamo l’ansia di finire un libro, per passare al successivo. O perché, semplicemente, a scuola non ci hanno mai abituati al deep reading. Ma non stiamo leggendo quel libro per poter dire agli altri di conoscerlo: lo stiamo leggendo perché l’azione ci procura del piacere. Quindi, ricordiamoci di leggerlo con calma.

Io credo che molte persone leggano velocemente perché non vogliono leggere ma vogliono aver letto. Ma perché vogliono aver letto? Perché, io credo, concepiscono la lettura semplicemente come un modo attraverso cui caricare informazioni nelle loro menti.

Il consiglio, seppur sembri in contrasto col tema iniziale, pare essere questo: leggete di meno. Non per poter lasciarvi distrarre dalle notifiche del vostro cellulare o dal continuo flusso di informazioni esterno, ma per concentrarvi maggiormente su pochi testi piuttosto che freneticamente e parzialmente su tanti. Così facendo, infatti, si diventa meri scanner, come ha scritto Stefano Bartezzaghi su Doppiozero:

Ora non mi càpita più. Non mi chiedo se sbaglio o no, mi chiedo se sia un peccato (da intendersi in senso laico) o no. Non potrei fare diversamente, così come non posso più stare sveglio: mi addormento anche se tengo la luce accesa e il libro in mano. Di buono, a non leggere sempre e furiosamente, c’è che si guadagna tempo per pensare. Cioè per leggere sé stessi, ivi comprese le proprie letture. Le ricette gaddiane di “I viaggi, la morte” (non il libro, ma proprio il capitolo da cui il libro prende il titolo) si possono applicare non solo a viaggiare o stare (sedere, come i sedenti di Gadda e i sedentari del dizionario) ma anche a leggere sempre o non sempre. Leggere solo libri, senza mai leggerne la propria lettura, non basta: si diventa come scanner.

Altri consigli? Evitare le liste di libri da leggere. La maggior parte delle persone non legge per il piacere di leggere ma per aver letto. E quindi fa delle liste. Dostoevskij? Letto, tiriamoci una linea sopra. Evitatele assolutamente: non dovete collezionare un triste elenco di libri consumati. Se quello è il vostro scopo, ciò che vi motiva alla lettura, tanto vale che consultiate il riassunto del suddetto libro su wikipedia.

Per la stessa ragione, rileggete i libri già letti. Appunto perché non dovete avere nessuna ansia di far numero, prendetevi del tempo per rileggere quei libri che vi hanno emozionato e che sicuramente saranno in grado di farlo nuovamente, ad una seconda lettura, rivelando nuove sfumature.

Jacobs suggerisce anche di lasciarsi guidare dalla serendipity. Ho notato spesso, come l’autore, che fare un programma di lettura non funziona mai. Una volta che un libro è in quel programma, sono certo che non lo leggerò. Ne troverò uno a caso su uno scaffale di una libreria che improvvisamente mi sembrerà più interessante di quello programmato, e finirò col scegliere quello. Lasciatevi quindi guidare dalla casualità.

Per concludere; è vero il presupposto iniziale, che abbiamo smesso di leggere? Sì e no. Sì perché è inconfutabile che le nostre menti siano più propense alla distrazione grazie ai continui flussi di notifiche, informazioni, svaghi e alternative. È inconfutabile che abbiamo sempre qualcosa da fare oltre a quello che stiamo facendo, e che molto spesso tentiamo un disperato e fallimentare multitasking che risulta incompatibile col deep reading e nemico della lettura immersiva. Sia chiaro che, come spiega l’autore, il problema non è il multitasking in sé e per sé – l’abbiamo sempre praticato, il multitasking – ma il fatto che siamo sempre in modalità multitasking, sempre interrotti da nuovi stimoli. È questa la differenza, rispetto al passato.

Potremmo a questo punto, già che ci siamo, tanto oramai il post è venuto fuori lunghissimo e tanto vale rafforzarne le dimensioni, e sottolineo anche che se siete arrivati fin qua in un’unica lettura è probabile che il problema sopra descritto nel vostro caso non sussita ma dicevo, mi son perso, ecco vedete, mi distraggo, che potremmo a questo punto citare una parte del discorso che David Foster Wallace tenne nel 2005 ai laureati del Kenyon College, “Questa è l’acqua“:

Vent’anni dopo la mia laurea, sono arrivato a capire che il cliché che le arti liberali insegnino come pensare è in realtà una semplificazione di un’idea più profonda, più seria: imparare come pensare significa realmente imparare come esercitare del controllo su come e cosa pensi. Significa essere consci e abbastanza consapevoli da scegliere a cosa prestare attenzione e scegliere come costruire il significato dall’esperienza.

Esercitare un controllo, poter scegliere come e a cosa prestare attenzione. Evitare il multitasking e prediligere, fra i centomila stimoli esterni, quello che più ci è caro. Per citare un’ultima volta Lynne Sharon Schwartz, prima o poi – indipendentemente dal caos che lo circonda – il vero lettore, colui che ricava piacere dalla lettura, spegne il suo iPhone e decide che è arrivato il momento di finirla coi tweet per tornare ai suoi libri.

Non puoi amare l’iPhone solo perché è gentile

Mi sono sempre imposto di utilizzare quanto meno possibile l’iPhone durante le cene o in presenza di altri. Se mi trovo con degli amici, questi mi devono bastare e tento di tutto per dimenticarmi di avere un iPhone in tasca. Lo estraggo raramente, magari lo spengo anche. Non ho mai sopportato le persone che passano le serate in presenza di altre con il cellulare in mano, inviando SMS e tentando di avere più conversazioni contemporaneamente. Come se non fossero soddisfatte della persona che hanno di fronte o come se questa non fosse mai sufficientemente importante da dedicargli la loro piena attenzione.

Nonostante questo, però, una cosa la devo ammettere. Ed è che sono comunque dipendente dal mio iPhone. Lo porto sempre con me, e per sempre intendo proprio sempre. Anche da una stanza all’altra della casa. E se lo dimentico, quando dalla casa ci esco, mi sento strano. Mi sento perduto. Ma dipendente è la parola esatta per descrivere la nostra relazione?

Se nel leggere la parola «relazione» avete fatto una faccia strana, come a dire “ma non starà esagerando?” sappiate che non è stata messa lì a caso. Perché secondo un recente articolo del New York Times io non sono dipendente dal mio iPhone, bensì lo amo:

Ciò che più ci ha colpito è stata l’attivazione della corteccia insulare del cervello, che è associata con sentimenti di amore e compassione. La mente dei soggetti ha avuto la stessa reazione al suono dei loro telefoni che avrebbe in presenza di una fidanzata. In breve, i soggetti non hanno dimostrato i classici segni di dipendenza. Invece, amano i loro iPhone.

La prima cosa a cui ho pensato, quando ho letto quell’articolo, è stato il discorso che Jonathan Franzen tenne il Maggio scorso al Kenyon College; s’intitolava “La tecnologia fornisce un’alternativa all’amore” (qui una traduzione del Corriere). Franzen in quel discorso parla del proprio BlackBerry Pearl e di come anche lui senta di esserne dipendente. Scusate, volevo dire innamorato. A volte lo tiene fra le mani senza alcuna ragione, ne osserva il design, lo schermo “meravigliosamente nitido”, lo accende con uno swipe delle dita solo per osservarne la reattività.

“Con il Pearl avevo stabilito rapporti di fiducia e di compatibilità; contavo su di lui”, dice ad un certo punto. E poi parla di questa cosa che gli sta succedendo, che ci sta succedendo, di provare qualcosa di più di semplice soddisfazione, ma sentire invece addirittura dell’affetto verso l’iPhone. Secondo Franzen (e io condivido) lo scopo della tecnologia, almeno negli ultimi anni, è stato (e continuerà ad essere) questo: piacerci.

In senso più ampio, l’obiettivo finale della tecnologia, il telos della techné, è sostituire un mondo naturale indifferente ai nostri desideri – un mondo di uragani, difficoltà e cuori infranti, in cui bisogna resistere – con un altro così sensibile ai nostri desideri da essere, di fatto, una mera estensione del nostro io.

Ciò che Franzen suggerire, come il titolo stesso dell’articolo tradisce, è che l’amore che proviamo verso gli oggetti tecnologici è solamente un amore alternativo/sostitutivo a quello reale. E che, anzi, non è nemmeno amore. Perché l’amore non ha nulla a che fare con il «piacere» ad una persona o nel caso dell’iPhone fare di tutto per essere da noi apprezzato, venendoci in aiuto in ogni situazione.

Come quando in “Revolutionary Road” April dice a Frank “Io ti amo quando sei gentile” e Frank: “Non dire una cosa del genere. Cristo, tu non puoi ‘amare’ la gente solo quando è ‘gentile’.” Quello che cercano di dirci, sia Franzen che Yates, è che «to love» e «to like» sono due verbi diversi. E che «to love» non ha nulla a che vedere con «to like» perché un giorno con quella persona che amiamo ci litigheremo e mostreremo dei lati di noi che “infrangono l’immagine di persone giuste, gentili, carine, attraenti, controllate, divertenti, simpatiche che ci siamo costruiti” (cit. Franzen).

Una situazione che con l’iPhone non ci capiterà mai. Perché iPhone sarà sempre gentile con noi, sarà sempre perfetto: non ci sarà un giorno in cui ci contraddirà o in cui ci ignorerà. Perché è fatto per piacerci, non per essere amato. Che sono, appunto, due cose totalmente differenti.