Le API, quelle traditrici. Appunti sparsi.
Tornando sul recente cambiamento alle API di Twitter, Benjamin Mayo ha analizzato i dati e, per quanto imperfetti possano essere, ha rilevato che circa il 29.2% dell’utenza di Twitter utilizza client di terze parti. Dunque un 29% che resterebbe toccato dai cambiamenti che, se effettivi, di fatto decreterebbero la morte dei client di terze parti.
Per rimanere sul tema, anche Tumblr ha modificato le sue API; le modifiche hanno portato software come MarsEdit a smettere all’improvviso di funzionare.
Twitter dice agli sviluppatori di essere una piattaforma sopra la quale costruire altre cose, applicazioni e servizi; il problema è che non ci sono garanzie, la gestione e il funzionamento delle API è in mano loro e queste vengono cambiate a seconda delle loro esigenze. E le esigenze, dopo un momento di crescita, sono evitare la fuoriuscita dei dati degli utenti per poterli vendere ai pubblicitari. Per tutte queste aziende arriva un momento in cui la monetizzazione dei contenuti diviene più importante del miglioramento del loro prodotto — lo dimostra che solo dopo sei anni, forse, saremo in grado di recuperare i tweet vecchi.
Questo rende qualsiasi business costruito sopra Twitter (e Facebook, e altre “piattaforme”) insicuro. La sfida di App.net è quella di offrire un’alternativa solida, a pagamento ma con gli utenti come tali e i pubblicitari senza alcun ruolo. È possibile un altro modello di business, uno che non si basi sul dare via tutto gratuitamente ma sul vendere un servizio?
Il ciclo di vita di un social network fino ad ora è stato, invariabilmente, noiosamente costante: una crescita esponenziale che si conclude sempre con un esodo, che comincia nel momento in cui l’azienda decide di monetizzare i suoi contenuti focalizzandosi sulla pubblicità, andando a modificare l’esperienza d’uso del suo prodotto.
Se si riuscisse a fare pagare il prodotto, o a offrire servizi aggiuntivi a pagamento, si potrebbe evitarlo? Twitter non potrebbe diventare un freemium offrendo agli utenti solidi, o ai media, funzioni premium a pagamento? Questo studio di sysomos dice che alla fin fine, tolti gli iscritti con 0 tweet o gli account spam, c’è un 5% degli utenti di Twitter che genera il 75% del traffico totale del sito. Basterebbe un 3% di quel 5% a supportare l’intero business?
Derek Powazek si chiede se, forse, semplicemente i social network non siano un buon business. Hanno sì un valore, ma sociale:
What if we all realized that social networks are a societal good but not necessarily good businesses? We’re all desperately hoping that Twitter or Facebook or Tumblr will figure out the secret ingredient that turns a large-scale community of free members into a cash machine. What if we’re all just waiting for the impossible? Like a business that turns water into gold? We’ve got lots of water, we just need to figure out the gold part.
In aggiunta a tutto questo, nessuno garantisce che solo perché un servizio è a pagamento continui ad esistere nel tempo. La critica più solida a App.net è che stiamo comunque dando i nostri dati in mano a un’azienda che continua ad avere pieno controllo su di essi.
Il caso di Sparrow, acquistato da Google a inizio settimana, è in qualche modo un esempio. Pur essendo a pagamento, si è dimostrato vulnerabile — sempre ammesso che le ipotesi sul suo business non sostenibile siano corrette e non semplicemente che gli sviluppatori abbiano deciso, in barba agli utenti, di vendere tutto con una logica accettabile ma che, personalmente, non condivido (“hey, it’s business, it’s money, it’s all fine“).
Se vuoi che un software duri in eterno, ironizzava qualcuno su Twitter, devi costruirtelo te stesso. Difficile, ma qualcosa si può fare per quanto riguarda i contenuti che mettiamo in rete: scegliere di avere un proprio sito web, qualcosa in mano nostra, un pilastro stabile nel tempo che veda e superi sia l’ascesa che il declino di Twitter, è importante.